Siamo soliti sentir parlare della perdita di “relazioni umane autentiche”.

Ci sentiamo pertanto spinti dal bisogno di liberarci da una liquidità in cui, irrimediabilmente, ci sentiamo impantanati e invischiati. Quasi imprigionati.

Quando Zygmunt Bauman parla della nostra società nei termini di una società liquida, descrive, con estrema lucidità, uno status quo che, composto dalla superficialità di relazioni usa e getta, sta impedendo all’essere umano di costruire un reticolo di rapporti autentici, fondati sull’essenziale valore del riconoscimento di sé e dell’altro.

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Tuttavia, per comprendere profondamente ciò di cui stiamo parlando e che cosa stiamo rincorrendo in questa nostra ricerca di senso e in questo bisogno, talvolta disperato, di ritrovare un’autenticità perduta, è necessario fare un passo indietro e comprendere che cosa questo termine significhi.

La parola «autentico » deriva da un lato, dal greco autòs, indicante lo stare da sé, singolarmente, senza il ricorso di altri, mentre la parola greca entòs, si riferirebbe ad uno stato in luogo, uno stare “dentro”: in altre parole, ciò che sta dentro di noi, ovvero, la nostra interiorità.

Essere autentici, dunque, si riferisce alla capacità del singolo di mostrare la propria interiorità, senza influenza esterna alcuna.

Nella storia del pensiero del Novecento, è Martin Heidegger, nella sua opera Essere e Tempo (1927), ad attribuire all’esserci due diverse condizioni dell’esistenza: l’autenticità e l’inautenticità.

Con la prima, egli fa riferimento all’impostazione secondo cui l’ente, nel suo esserci, si sceglie, aderendo e riconoscendo la sua verità, in altre parole: la sua stessa natura. Si può parlare, pertanto, di esistenza autentica, qualora il soggetto scegliesse di compiere scelte vere, mettendosi in gioco. Quel dasein, cuore del pensiero heideggeriano, si traduce dunque concretamente in un essere-nel-mondo autenticamente vissuto, nel momento in cui il soggetto si sceglie in quanto progettualità, possibilità di essere secondo la propria natura.

Scegliersi, per l’essere umano, significa però essere capaci di accettare la finitudine che ci contraddistingue, finitudine che, il pensatore, traduce in un essere-per-la-morte.

mascheraL’esserci inautentico, al contrario, si caratterizza per l’incapacità dell’essere umano di relazionarsi con il mondo, trasformandosi in “cosa tra le cose”. Questa deiezione, come la definisce Heidegger, si manifesta nel momento in cui l’uomo rinuncia alla possibilità di essere se stesso, rifugiandosi in un “Si” impersonale e conformista.

In altre parole, in una società dominata dal “si”, un “si parla”, un “si lavora”, un si ama”, ciascuno finisce col rimanere imprigionato in un’identità anonima e indifferenziata. “Si fa” ciò che qualsiasi altra donna o uomo realizza, ma nessuno riesce a lasciare una traccia di sé nel mondo. “Si fa”, certo. Ma “si agisce” secondo automatismi, rispettando velocità e tempistiche che la società ha scelto per noi. Non più liberi di scegliere, e al contempo fautori della privazione della nostra stessa libertà, siamo diventati burattini di uno spettacolo la cui teatralità impedisce di tessere delle relazioni autentiche, vissute con la libertà di essere se stessi.

È chiaro quindi che cosa intende Bauman, facendo investire tutte le dimensioni dell’esistenza dalla “liquidità”. L’amore, la vita, la paura, il futuro. La liquidità, impastando le nostre esistenze, ci ha reso “servi volontari” – termine, questo, utilizzato da Etienne de la Boétie, – di una società rinchiusa in un’inautenticità che paralizza.

Invece di elogiare un’autenticità perduta, la contemporaneità ci invita a lavorare sulla ricostruzione di un tessuto sociale in frammenti, a partire dalla riscoperta del senso profondo dell’autenticità di ciascuna esistenza.

Sara Roggi

La Chiave di Sophia

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