Lunedì 12 dicembre si è insediato il nuovo esecutivo guidato da Paolo Gentiloni, che sostituisce il dimissionario Matteo Renzi. E’ il 64esimo governo della storia repubblicana

Crisi tattica, soluzione tattica. Ton-sur-ton, si direbbe con linguaggio fashion. A dispetto di rimedi più “strategici” invocati dalle opposizioni – Cinque Stelle e Lega su tutti – che avrebbero desiderato andare al voto anche con l’attuale “non legge” elettorale, il nuovo governo si è materializzato in meno di una settimana facendo dimenticare per una volta le lunghe liturgie politico-istituzionali italiane.

Complici le pressanti questioni interne rimaste sul tappeto – emergenza terremoto, banche, etc. – e la nutrita agenda internazionale dei prossimi mesi, il Presidente della Repubblica [s2If !current_user_can(access_s2member_level1)] …READ MORE[/s2If][s2If current_user_can(access_s2member_level1)] si è trovato nella necessità di accelerare, pur con il consueto rigore istituzionale, le procedure per la formazione di un esecutivo che, almeno formalmente, avesse il crisma della piena rappresentanza.

Ma, se sulla potestà rappresentativa non vi è dubbio alcuno, sul concetto di pienezza sono in molti a storcere il naso. Per i più, infatti, quello di Paolo Gentiloni è un esecutivo-yogurt, a scadenza programmata; per molti, l’ex militante della sinistra extraparlamentare è il traghettatore, lo psicopompo che avrà il compito di accompagnare sulla sponda (al momento invisibile) del purgatorio elettorale le anime belle (e morte) del riformismo collodiano-renziano. Per tutti, però, il conte Gentiloni Silveri è semplicemente l’ologramma dell’enfant prodige di Rignano sull’Arno.

I maligni dicono che il Bomba si sarebbe inventato un esecutivo-playstation, eterodiretto cioè. La scelta di Gentiloni – caldeggiata da Matteo-Mario Bros e ispirata dall’anziano inventore del software, suo mèntore occulto – sarebbe avvenuta proprio grazie al naturale understatement dell’aristocratico premier, il quale al momento del tiro dal dischetto dovrebbe lasciare il posto al rientrante primo rigorista. L’uso del condizionale è d’obbligo quando è in gioco l’ambizione umana, come insegna la lunga storia del potere, di quello politico in particolare.

Insidie a parte, la tecnica di composizione del nuovo governo ricorda la pittura seriale di Andy Warhol: qualche pennellata di colore sullo stesso soggetto fotografico e la fotocopia diventa l’originale. Chi non ricorda le raffigurazioni di Marilyn Monroe, tutte così diverse e così uguali. Dei diciotto ministri nominati, cinque sono new entry e tredici i riconfermati, con la “Mariele” Boschi trasferita sulla tolda di controllo della presidenza del consiglio: quando un sottosegretario vale più di un ministro… Cinque sono anche i dicasteri al femminile, con due innesti Ogm a sancire i transitori equilibri interni del Nazareno: le senatrici Anna Finocchiaro (Rapporti con il Parlamento) in sostituzione della Boschi, e Valeria Fedeli (Istruzione) che rileva Stefania Giannini, l’unico ministro a restar fuori dal giro, ad imperitura memoria della Buona Scuola renziana.

Tutto il resto è noia. Angelino Alfano trasloca dal Viminale alla Farnesina, forse per una maggiore consuetudine con le lingue, mentre all’Interno arriva un riservato conoscitore di affari riservati, Marco Minniti. Gli altri esordienti sono Claudio De Vincenti, che va a dirigere la Coesione Territoriale e Mezzogiorno, ministero di nuovo conio per sottolineare una certa sensibilità al disagio sociale e al problema dell’occupazione al Sud, e il giovanissimo Luca Lotti, petalo turgido del giglio magico, del quale più che la titolarità dello Sport spiccano le deleghe su editoria e Cipe.

A proposito di deleghe, da notare che il neo premier ha tenuto per sé, almeno per il momento, quella sui servizi segreti. Materia che scotta, come evoca il nome, preservata per tre anni dal fidato Minniti e che qualcuno voleva consegnare, proprio in base al criterio fiduciario, a Lotti.

In ogni caso, al netto dei magheggi e degli obblighi istituzionali, questo esecutivo post-referendario nasce con il compito di favorire un’intesa tra i partiti sulla legge elettorale, vera pietra miliare della legislatura. In casa Pd, il partito di maggioranza relativa, si esclude l’ipotesi di un governo che arrivi al 2018; il rapporto di continuità con il precedente esecutivo dovrebbe confermare la natura transeunte del nuovo gabinetto e rassicurare sulla possibilità di soddisfare in tempi brevi la richiesta di elezioni che viene da quasi tutti gli schieramenti, benché con motivazioni totalmente diverse.

I grillini sentono che il momento è vicino e vogliono votare in qualunque modo temendo congiure trasversali sulle formule elettorali; Renzi, interessato solo a regolare i conti con i soci della ditta, invoca le urne cercando di capitalizzare il consenso interno e sapendo di poter scaricare sulla minoranza del partito la responsabilità di ogni dilazione temporale.

Le previsioni più ottimistiche indicano in aprile o in giugno le date possibili, ma vi è anche chi rimanda a settembre. A parte la coincidenza numerica dei mesi (tutti di 30 giorni), non vi è dubbio che è diventata ormai improcrastinabile l’esigenza di assicurare l’imprimatur popolare al processo legislativo: ciò che può avvenire solo con un parlamento eletto, ed eletto con modalità realmente rappresentative della comunità, come postula il concetto di democrazia parlamentare.

Gianfranco Bonanno

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