Per un italiano che cerca lavoro, ci sono almeno due stranieri disposti a farlo. Questa differenza spiega – almeno in parte – i numeri preoccupanti che aleggiano sul mondo del lavoro giovanile nel nostro Paese. I più recenti dati statistici rivelano che il tasso di disoccupazione degli under 30 ha sfondato il muro del 40% a livello nazionale: una percentuale drammatica, ancor più se si pensa che nell’era dell’ homo technologicus dovrebbero essere i Millenials (i nativi digitali) i più “occupati”.

E invece si scopre che proprio coloro che sono nati e cresciuti nel cyberspazio fanno più fatica a esprimere la loro attitudine nel campo delle professioni e dei mestieri. Per ragioni oggettive: minore offerta rispetto alla domanda; e per ragioni soggettive: in molti casi, alla naturale alfabetizzazione tecnologica non corrisponde un’adeguata cultura digitale. Insomma il giovane lavoratore italiano del terzo millennio sembra vivere una sorta di corto circuito tra genetica e comportamento.

Ma qual è la situazione in Regione?

Secondo Veneto Lavoro, nel 2016, i ragazzi di fascia 15-29 anni senza occupazione erano oltre 110mila (un terzo del totale), di cui 31.800 disoccupati (quelli che hanno perso il posto); 17.600 inoccupati (coloro che non hanno mai lavorato); e poco meno di 61mila i cosiddetti lavoratori “di rientro”, ovvero coloro che svolgono attività saltuarie, come per esempio impieghi stagionali. Di questa platea di giovani, oltre tre quarti sono italiani. Si tratta dei cosiddetti Neet (ovvero Not in Education, Employment or Training), iscritti a Garanzia Giovani Veneto, il programma con cui la Regione garantisce a questi giovani un’offerta valida di lavoro o formazione entro 4 mesi dall’inizio della disoccupazione o dalla fine del percorso di studi.

L’acronimo che definisce questa particolare categoria di giovani (i “né-né”, che non lavorano e non cercano un lavoro) basta già da solo a turbare le coscienze: non tanto, o non solo, dei diretti interessati, quanto degli adulti e delle classi dirigenti che hanno responsabilità nei processi di guida e di sviluppo delle società. Perché se questa specie nuova di rinunciatari esiste, bisognerebbe anche chiedersi come è venuta a formarsi e a quali modelli si ispira. E soprattutto se e come può evolvere verso forme di maggiore impegno e inclusione.

Giusto per esemplificare: gli hippies degli Anni ’70 hanno segnato un formidabile momento di rottura con gli schemi tradizionali, puntando a scardinare i valori e le gerarchie (anche nel campo del lavoro); nel decennio successivo gli yuppies dell’“edonismo reaganiano” hanno recuperato (sia pure in chiave materialistica) la voglia di successo, quel gusto della sfida che ha prodotto un modello positivo di fiducia in sé stessi e di effervescente “relazionalità”. Sotto questo profilo, il risultato è stato quantomeno di una crescita e di una più larga diffusione del benessere economico.

Certo, lo scenario di oggi è completamente diverso. La globalizzazione (delle merci e del pensiero) che ha rivoluzionato il concetto di spazio e di identità; la tecnologia che ha trasformato la percezione del tempo e il significato di utilità; i flussi migratori dalle zone più povere che hanno re-introdotto, aggiornandolo, l’antico paradigma della mercificazione del lavoro, con conseguente livellamento verso il basso delle retribuzioni; la crisi economica che ha accentuato disuguaglianze e precarietà; la crisi morale, con l’affermarsi di un relativismo che rende più molli i costumi: tutto ciò è da tenere in debito conto quando si voglia esaminare il fenomeno della disoccupazione nel terzo millennio.

La crescente desistenza da parte della classe giovanile nella ricerca di lavoro sconta, quindi, molte “concause”: ecco perché definizioni quali bamboccioni o fannulloni risultano alla fine abusate e non bastano a inquadrare il fenomeno. L’atteggiamento “choosy” (per dirla con la ex ministra Fornero) dei giovanissimi, spesso poco propensi alla gavetta e al “sacrificio”, fa il paio con l’approssimazione e l’inconsistenza del decisore politico. Nonostante qualche “buona pratica”, sono una piccola parte coloro che riescono a trovare collocazione attraverso le agenzie del lavoro, mentre non vi è la benché minima convergenza tra percorso scolastico e mondo del lavoro.

Sul portale istituzionale ClicLavoroVeneto.it, si trovano 6.326 curricula di under 30 disposti a fare i camerieri e solo 55 aziende che ne hanno bisogno. Una sproporzione che si riflette anche in altre figure professionali, come panettieri (161 a 1), ingegneri (480 a 18), sarti (128 a 5). Del resto, sono anni che i sociologi parlano di “transumanza di italiani” da certe attività: fornai, pizzaioli, infermieri, per citarne alcune. Mansioni espletate oggi prevalentemente da extracomunitari ed europei dell’Est.

Per non parlare del pubblico impiego, una galassia dove l’appartenenza conta ancora molto di più della competenza, come dimostra per esempio il caso dei concorsi di Veneto lavoro. Insomma, se l’offerta privata si riduce a causa di una crisi economica che ha snervato il peculiare tessuto produttivo del Nordest, la microimpresa e l’artigianato, le opportunità nel pubblico passano molto spesso attraverso Picone.