«Il cibo è poco, abbiamo freddo». Esplode la rabbia dei profughi nell’ex base militare. Oltre un centinaio di profughi è uscito urlando e ha improvvisato una manifestazione. «Non c’è un medico e manca l’acqua calda»: «Siamo in troppi» Prima la protesta, poi le risse, gli scontri con la polizia e gli ingressi sbarrati. «Siamo in settecento qui, vogliamo i documenti».

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Scoppia la rivolta al centro di accoglienza di Cona (Ve). I profughi occupano l’ex base militare per protestare contro sovraffollamento e ritardi nei documenti. Scontri tra i manifestanti e gli agenti, volano pugni.

E venne il giorno della grande rivolta. La «città dei profughi», nascosta agli occhi del Veneto e cresciuta su se stessa in un clima di perenne emergenza, si è incendiata all’improvviso. Dal blocco stradale alla rumorosa protesta, dalle risse agli scontri con le forze dell’ordine: per un attimo si è temuto che la situazione degenerasse. Alla fine i migranti hanno preso il controllo dell’ex base militare sbarrando l’ingresso ma l’opera di mediazione della prefettura e della polizia li ha convinti a «firmare» una tregua. Non si sa quanto duratura.

 

Se il tumulto non è sfociato in qualcosa di più grave forse lo dobbiamo solo al caso. Una folla arrabbiata e scomposta si muoveva senza controllo. Loro, i profughi, dicono di essere più di 700 anche se le ultime stime della prefettura parlano di 570. In ogni caso un’enormità se rapportati alla popolazione della minuscola frazione di Cona, appena 197 abitanti. Del resto che si trattasse di una bomba ad orologeria, era storia nota. Le aveva rese note un cronista le difficili condizioni del campo dopo aver lavorato per giorni alle dipendenze di Ecofficina, la coop che gestisce la struttura. L’aveva gridato ai quattro venti decine di volte pure il sindaco di Cona, Alberto Panfilio, sempre disponibile a collaborare con le istituzioni sul fronte accoglienza. Ma il prefetto Domenico Cuttaia ha visto cadere nel vuoto una dopo l’altra le sue richieste agli enti locali (nel Veneziano i Comuni che ospitano i profughi sono solo 16 su 44).

Passavano i mesi e il bubbone cresceva, alimentato da rabbia e disagio. Il punto di rottura è arrivato quando una trentina di migranti ha valicato le recinzioni della base per arrivare fino alla strada provinciale con cartelli e panche sistemate a mo’ di transenne. Una barricata di protesta, per denunciare il sovraffollamento e i ritardi nella consegna dei documenti tanto attesi. «Campo no è buono. Perché noi siamo 700, tutti razza che ce qui non piace campo. Cona no buono!». L’italiano non sarà perfetto, ma il messaggio scritto in un cartellone arriva forte. Conetta, ormai, è la località dei migranti, la capitale delle contraddizioni, dove accoglienza fa rima con parcheggio, dove integrazione significa assistenza. Arrivano Digos, polizia e carabinieri, chiamati dai residenti. Altro che alberghi a Cinque Stelle, come qualcuno definisce i centri di accoglienza.

 

È a questo punto che la tensione esplode. La polizia si avvicina e iniziano gli scontri. Pugni, spintoni, manganellate. Il cancello viene bloccato dalle panche, i migranti occupano la guardiola e restano in piedi a fare da muro umano per impedire l’accesso a chiunque. Agli operatori di Ecofficina («No lavoro oggi, va via!»), al servizio di pulizie, ai cuochi pronti con il furgone che trasporta i pasti: hamburger, piselli, carote e riso al curry. «Oggi no mangiare!».

 

Il fronte della protesta, però, non è compatto. Non può esserlo: ci sono 17 etnie diverse all’interno della base. C’è chi porta le scarpe e chi le infradito, chi la canottiera e chi il giubbotto. Soprattutto, chi vuole contestare e chi vuole mangiare. Il clima agitato non aiuta la discussione civile, e scoppia una rissa furibonda. Pugni, calci, qualcuno sradica anche il palo della fotocellula del cancello e per minacciare i «crumiri». Gli operatori della coop riescono, a fatica, a riportare la calma. L’emergenza, però, non è passata, i problemi di Conetta sono sempre gli stessi da mesi. Garanzie per il domani non ce ne sono.

 

Gian Nicola Pittalis

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