Schede per il referendum (foto di repertorio)
Schede per il referendum (foto di repertorio)

La sorprendente affluenza alle urne in occasione del referendum del 4 dicembre conferma l’attenzione degli italiani all’ordinamento istituzionale del Paese ed esprime la forte istanza di partecipazione dei cittadini ai temi che riguardano da vicino la propria condizione civile, sociale ed economica

Hanno vinto gli italiani. Se si dovesse sintetizzare in un claim il voto referendario del 4 dicembre, senza dubbio sarebbe questa la formula più efficace. L’affluenza, infatti, è stato il dato politico prevalente: una interessante inversione di tendenza rispetto al passato, che dimostra come la voglia di partecipazione dei cittadini alla vita del Paese sia affatto spenta, manifestandosi piuttosto sui temi vivi della società e non [s2If !current_user_can(access_s2member_level1)] …READ MORE[/s2If][s2If current_user_can(access_s2member_level1)] sulle questioni di bottega a cui il nostro ceto politico, ormai poco rappresentativo della volontà popolare, ci ha abituati in particolare nell’ultimo periodo.

Oltre trentatré milioni di italiani, i due terzi della popolazione, sono tornati alle urne dopo anni di disaffezione per la politica e di diserzione dal voto, indicando il gradimento o meno delle riforme costituzionali proposte dal governo Renzi. Come sappiamo, il risultato è stato inequivocabile; il No ha trionfato oltre ogni previsione (59,12% contro 40,88%) provocando anche la caduta dell’esecutivo. Per il giovane premier si è trattato dunque di un fallimento su tutta la linea e, almeno per il momento, la sua vorticosa ascesa politica deve registrare il passo.

L’esito del referendum – la crisi di governo, nello specifico – rappresenta tuttavia un’anomalia rispetto al tipo di consultazione. I cittadini erano infatti chiamati ad esprimere il loro parere sulle modifiche alla carta costituzionale, espressione più alta del nostro ordinamento democratico, e non sull’azione di governo. Ma vari elementi – la personalizzazione in chiave politica da parte del presidente del consiglio; i temi civili e politici sottesi alle modifiche, da molti interpretate come un’alterazione in negativo delle garanzie costituzionali; il crescente disagio economico delle famiglie; l’emergenza occupazionale; la scrittura in larga parte criptica del testo; le “ingerenze” di Bruxelles e delle élite finanziarie internazionali – tutto ciò ha concorso a fare del voto referendario il tribunale dell’esecutivo.

Un giudizio “evocato” dallo stesso premier (quasi mai nella storia repubblicana l’iniziativa referendaria è partita dai banchi del governo), il quale evidentemente aspirava a quella legittimazione popolare che non ha avuto nella sua “assunzione” a Palazzo Chigi e che i suoi avversari gli rimproverano. Dunque, più che un referendum, si è trattato di un autentico plebiscito personale su Renzi, peraltro segretario del partito di maggioranza relativa, il che rende lo scacchiere elettorale, già complicato di suo vista l’assenza di una legge condivisa, qualcosa tra il puzzle e il risiko.

Il Si ha vinto solo in tre regioni: in Toscana (52,51%), Emilia Romagna (50,39%) e Trentino (53,87%). In tutte le altre regioni ha stravinto il No con il picco in Sardegna (72,22%), Sicilia (71,6%) e Campania (68,52%). In generale il No è stato consistente soprattutto al Sud e al Centro, mentre nel Nord la differenza è stata meno accentuata. Gli analisti concordano nel considerare questa forbice come una rappresentazione plastica delle diversità socio-economiche che caratterizzano il Paese, differenze – è bene sottolinearlo – accentuate dalle politiche economiche nazionali degli ultimi dieci anni.

Ma il dato che più colpisce è quello che emerge dall’analisi su base anagrafica dei votanti: il 70% dei giovani under 34 ha messo la croce sulla casella del No. Un paradosso per chi, come Renzi, si era presentato come l’innovatore per antonomasia. La sua spigliata comunicazione social si è rivelata infine più affabulatoria che interprete delle sofferenze che pervadono larghi strati della popolazione giovanile. E non solo.

Anche allargando lo spettro socio-anagrafico, la musica non cambia: il No ha prevalso nel 65% degli elettori di fascia 34-64 anni e in tutte le categorie professionali: studenti, operai, impiegati, insegnanti, lavoratori autonomi, casalinghe e disoccupati. In particolare, tra queste ultime, si sono registrate le percentuali più alte del No: tra il 66% e il 76%.

Per restare a una prospettiva demo-sociologica del voto referendario, è interessante notare come anche nelle città dove si è affermato il Si, significative eccezioni si sono riscontrate nei quartieri periferici. A Milano il No è stato il monosillabo di tutto l’hinterland e del Municipio 2 (dove c’è via Padova, la zona a più alto tasso d’immigrazione), mentre a Roma il Sì ha vinto solo nella prima e nella seconda circoscrizione, cioè i Parioli e le zone più ricche della città.

In conclusione, per il Sì hanno votato 13 milioni di italiani, in larghissima parte anziani (over 65) e classi agiate; per il No, 19 milioni di cittadini, soprattutto giovani, portatori di disagio economico e occupazionale. Una rappresentazione paradigmatica dei vecchi elettorati – Dc/Pci – la cui dicotomia è però oggi rotta dai movimenti cosiddetti “populisti”, intercettatori delle istanze sociali del terzo millennio e animatori di quel dibattito europeista al cui centro si va sovrapponendo sempre più la questione identitaria nazionale.

Gianfranco Bonanno

 

BREVE STORIA DEI REFERENDUM IN ITALIA

Quello del 4 dicembre 2016 è stato il 72esimo referendum in Italia dal 1946, il terzo in materia costituzionale. Assieme alla petizione (articolo 50 della Costituzione) e al disegno di legge di iniziativa popolare (articolo 71) è strumento principe di garanzia democratica assicurando l’effettiva partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese.

Varie sono le tipologie di referendum nel mondo. In Italia prevalgono quelli confermativi, con i quali si chiede al popolo di fare entrare in vigore una legge, e quelli abrogativi, intesi a sopprimere una legge o un decreto legislativo.

I primi non hanno bisogno di quorum per essere approvati; basta che i voti favorevoli siano superiori a quelli contrari. Il referendum costituzionale fa parte di questi. Per quanto riguarda i referendum abrogativi serve il quorum del 50%+1, ovvero la metà degli aventi diritto al voto più almeno un singolo voto. La sua disciplina è contenuta nll’articolo 75 della Costituzione.

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Scendendo nel dettaglio, dei 71 quesiti referendari precedenti ben 67 sono stati di natura abrogativa e quattro di natura consultiva. In quest’ultima categoria rientrano il referendum istituzionale del 1946 con cui l’Italia ha scelto di diventare una Repubblica; il referendum di indirizzo del 1989 per il mandato costituente al Parlamento europeo; i due costituzionali del 2001 e del 2006, concernenti rispettivamente modifiche al titolo 5 della parte seconda e la parte seconda della Carta relativa agli assetti istituzionali.

 

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I principali altri quesiti sottoposti a consultazione referendaria, tutti di natura abrogativa, hanno riguardato temi civili e sociali. Tra questi, ricordiamo: quello sul divorzio del 1974; sull’aborto del 1981; sul nucleare del 1987 e del 2011; sulla procreazione assistita e sulla fecondazione eterologa del 2005; e infine quello sulle estrazioni di idrocarburi entro le 12 miglia marine, meglio noto come “referendum sulle trivelle”, svoltosi nell’aprile di quest’anno.

GB

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