Popolare, ironico, stralunato, poetico. Attento a non sconfinare nella volgarità. Artista completo. Più colto di quanto lasciasse vedere, conoscitore profondo di Goldoni tanto da dare il meglio di sé in “Tonin bella grazia”, testo poco rappresentato. Capace di ridere di se stesso, di fare dell’ubriaco la sua maschera televisiva pur essendo quasi astemio. Ha fatto ridere generazioni facendo il tedeschino sotto l’elmo di Sturmtruppen. Ha venduto milioni di copie di dischi con Johnny Bassotto (“Chi ha rubato la marmellata?”) facendo cantare i bambini degli anni Settanta. Ha lavorato al cinema con Mastroianni e Gassman ed è stato diretto da Monicelli e Dino Risi. Toffolo, figlio di un vetraio di Murano, aveva studiato violino e composto canzoni d’amore in veneziano: «La lingua che usi quando pensi, quando sogni e soprattutto quando, arrabbiato, dici le parolacce, ecco quella è la tua lingua». Toffolo diceva che l’italiano lo si impara a scuola, come la prima lingua straniera, il dialetto invece lo assorbi col latte della mamma. E il veneziano era la sua arma per cantare l’amore: come in “Oh Nina, vien giù da basso che te vogio ben” con la quale fece il Cantagiro del 1969; come in “Gastu mai pensà” poi ripresa da Jannacci in italiano. Lo spaventava soltanto rifare la stessa cosa ogni sera, per questo aveva rifiutato importanti proposte teatrali. Per lui il teatro erano improvvisazione, la commedia dell’arte, lo specchio della vita portato sul palcoscenico. Un gigante, leggero ma caustico; una grande maschera sotto la quale c’era un’arte vera. Ironizzava sui nostri vizi e cercava un senso per chi lo aveva smarrito, «Perché l’artista – diceva – deve essere in diretta con la vita». Per questo su Notizie Plus in uscita dedichiamo a Lino Toffolo un ricordo speciale.

Gian Nicola Pittalis

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