Daniela Masnada (25 anni, incinta di quattro mesi, telefonista), Fernanda Mazziotta (direttrice della filiale), Emilia Merlo (cliente che si trovava a far compere con il marito), Walter Ruffato (operaio), Franca Tagliapietra (commessa). Un secco elenco. Nomi e cognomi di lavoratori o semplici acquirenti, scomparsi 30 anni fa nel rogo che devastò l’Emporio Coin di Rialto. Scomparsi fisicamente ma non nella memoria di chi, oggi, li ricorda. Ci furono anche 13  feriti in quel rogo ai magazzini Coin di Venezia; una delle tragedie più dure e angoscianti per la città dal dopoguerra ad oggi.

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Asfissiati, ustionati per un incendio scoppiato a causa di una scintilla caduta sulle resine durante una serie di lavori di ristrutturazione. Imprigionati in una gabbia di acciaio e cemento, con le inferriate alle finestre che impedivano di scivolare via, i ritardi dei soccorsi, le debolezze architettoniche di una città intera che se da un lato è unica al mondo, dall’altro è quasi inaccessibile ai mezzi di soccorso. Quei morti rappresentano per sempre un dazio gigantesco, con il quale la coscienza collettiva di questa città ha il dovere di fare i conti. Trent’anni fa le famiglie di Daniela Masnada e Franca Tagliapietra non vollero un rito funebre collettivo: una scelta che suonò come atto d’accusa collettivo verso l’amministrazione e tutta la cittadinanza.

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Poi accade che il destino, beffardo e quasi irriverente, colpisca esattamente 10 anni dopo (nel 1996) colpendo ancora al cuore la fragilità di questa città. Prende fuoco il Teatro La Fenice. Il destino storico di questa città non dimentica la tragedia di Coin, ma trova un altra cicatrice mai rimarginata che, quasi la offusca nelle ombre che salgono dalla Laguna. Più facile ricordare un simbolo storico di Venezia, sentire ancora l’eco delle parole dell’allora Sindaco Cacciari <<La Fenice, come l’animale mitologico, risorgerà dove era prima, più bella di prima>>.  Forse era più facile affidarsi alla rinascita del teatro simbolo non solo di una ricostruzione fisica ma anche dell’inizio di una conquista di sicurezza per Venezia. Ma i morti di Coin restano lì e ci ricordano che Venezia ha un disperato, persistente bisogno di sicurezza.

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In questi anni molto è stato fatto. Sia da singoli che da amministrazioni. Alfio Pini, (per anni comandante dei Vigili del Fuoco di Venezia  affrontò l’emergenza dell’incendio della Fenice) ha dato un contributo determinante nella messa a regime di una rete idrica antincendio in grado di difendere le zone più a rischio.

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Nel 2010, sempre Cacciari in veste di sindaco annunciò <<la realizzazione di oltre 35 km. di condotte e di 693 idranti piazzati in posti strategici della città che già coprono il 100% delle aree ad alto rischio” era chiaro un problema: “c’è sicuramente ancora da fare. Il costo per il completamento della rete idrica si aggira sui 18 milioni di euro. Speriamo che i finanziamenti di Legge speciale possano riprendere per completare, anche grazie a quelli e alle vendite patrimoniali, la messa in sicurezza della città>>. Oggi tocca a Brugnaro chiedendo un intervento su Venezia direttamente a Roma. <<le bricole che marciscono vanno cambiate, i rii vanno scavati altrimenti non ci passano né barchini né ambulanze, i masegni che sostengono le rive non ce la fanno più scavati dal salso. Oltre il bisogno di risorse per procedere con “il completamento della rete degli acquedotti antincendio>>. Invocazioni giuste e doverose ma che non cambiano la realtà; Venezia è un problema collettivo, così come deve essere collettiva la memoria di quei morti. Impegnarsi per esigere che, per quanto unica e particolare, la città sia anche a misura d’uomo per sicurezza e interventi è un obbligo morale e amministrativo. Non lo dobbiamo solo a noi stessi e ai cittadini che vivono Venezia e, per questo e altri motivi, la abbandonano. Lo dobbiamo alla memoria di quelle persone che rappresentano una ferita ancora aperta, non fosse altro per dare un senso a queste due tragedie così assurde.

Gian Nicola Pittalis

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