Veniamo ai giorni nostri: secondo la società di studi economici Nomisma, in un anno, dal primo gennaio 2014, il barile di greggio è calato del 53%, assestandosi intorno ai 47 dollari al barile. In Italia la benzina è calata da 1,723 euro al litro a 1,534, neanche due centesimi. Una riduzione ridicola, appena dell’11%.
Paradossi sconcertanti che non sempre le crisi bancarie, finanziarie o dei debiti sovrani, i conflitti nei paesi del Medio Oriente, o l’alta disoccupazione e i consumi depressi – che pur pesano – riescono a spiegare. Eppure una spiegazione c’è.
In Italia il prezzo dei carburanti è formato da due componenti: una industriale e una fiscale. Quella industriale include la materia prima, che pesa per l’80% del costo, e dal margine lordo, cioè lo stoccaggio, la distribuzione, la commercializzazione, il guadagno del gestore. Poi ci sono le tasse: l’accisa, cioè l’imposta fissa oggi a 0,72 euro al litro, e l’Iva al 22% conteggiata sia sul valore dei prodotti sia sull’accisa stessa.
A pesare, dunque, sul prezzo alla pompa – per ben il 57% – sono soprattutto le tasse. La componente industriale è del 43%. Le quotazioni del greggio e l’effetto del cambio euro – dollaro pesano solo su un piccolo segmento di prezzo pari al 34%. Paghiamo la benzina più cara d’Europa. Negli ultimi 5 anni i prezzi della raffinazione sono aumentati del 46%, quelli fiscali del 29%.
Ecco dunque svelato l’arcano: gli automobilisti sborseranno di meno solo quando lo stato intascherà di meno.