Tutti li citano, pochi ne conoscono il reale significato. Stiamo parlando dei Big Data, che tradotto letteralmente significa grandi dati o grossi dati. Una definizione che dice tutto e niente, se non si comprende [s2If !current_user_can(access_s2member_level1)] …READ MORE[/s2If][s2If current_user_can(access_s2member_level1)] la loro applicazione concreta nella vita di tutti i giorni, l’uso (e spesso l’abuso) che di questi dati viene fatto. La vera rivoluzione tecnologica consiste infatti non tanto nella facilità di acquisizione di una massa di informazioni, quanto la capacità di usarle per elaborare, analizzare e trovare riscontri oggettivi nei diversi ambiti tematici.

Un’opportunità ormai insopprimibile per scienziati, ricercatori e amministrazioni pubbliche, ma anche per tutto il mercato business: dalle telecomunicazioni alle automobili, dalla finanza al gioco d’azzardo. Nessun settore in cui esiste un marketing e dei dati da analizzare può dirsi indenne dalla rivoluzione Big Data.

In generale possiamo quindi affermare che il termine Big Data si riferisce proprio a cosa si può fare con tutta questa quantità di informazioni, ossia agli algoritmi capaci di trattare così tante variabili in poco tempo e con poche risorse computazionali.

Il loro maggior utilizzo avviene nell’ambito dell’Information Technology, che, secondo la definizione data nel 1958 dai professori Harold J. Leavitt e Thomas L. Whisler, consiste di “tecniche di elaborazione e applicazione di metodi statistici e matematici al processo decisionale, simulando pensieri di ordine superiore attraverso programmi informatici”.

Insomma, chi deve venderci un prodotto o orientarci verso un’idea lo fa conoscendo i nostri gusti, le preferenze negli acquisti, i mezzi economici e la nostra capacità decisionale.

La quantità di dati oggi generati è abnorme: dai telefoni alle carte di credito, dalla televisione ai cookies generati dalle applicazioni dei computer, dalle infrastrutture intelligenti delle città, fino ai sensori montati sugli edifici, sui mezzi di trasporto e via discorrendo.

I dati vengono generati con un flusso così crescente che tutte le informazioni accumulate nel corso degli ultimi due anni ha superato l’ordine dei Zettabyte (1021 byte), segnando un record per l’umana civiltà.

Per meglio rendere il concetto, se fino a qualche anno fa uno scienziato per analizzare piccole quantità di dati aveva bisogno di computer da qualche milione di dollari impiegando molti mesi di lavoro, oggi con un semplice algoritmo, quelle stesse informazioni possono essere elaborate nel giro di poche ore con un semplice laptop per accedere alla piattaforma di analisi.

Questa è la rivoluzione Big Data. Un processo basato sulla capacità di collegare fra loro le informazioni per fornire un approccio visuale ai dati, suggerendo modelli di interpretazione fino a ora inimmaginabili.

Ma i Big Data non interessano solo il settore IT. La rivoluzione tocca le vite di tutti noi senza che neppure ce ne accorgiamo. Per esempio, un loro uso ormai consolidato è nella costruzione dei cosiddetti metodi di raccomandazione, come quelli utilizzati da Netflix e Amazon per fare proposte di acquisto sulla base dei nostri interessi. Tutti i dati acquisiti durante la nostra navigazione su internet, dai prodotti acquistati o semplicemente ricercati, permettono ai colossi del commercio (elettronico e non) di suggerire i prodotti più vicini alle nostre preferenze o alle nostre esigenze.

Esistono perfino algoritmi che riescono a predire se una utente donna è incinta, tracciando le sue ricerche sul Web e gli oggetti acquisiti in precedenza, come lozioni e via discorrendo. Una volta individuato il particolare stato, a quella stessa utente si offrono offerte speciali e coupon su prodotti inerenti al proprio stato. Con l’aiuto dei Big Data, le stesse società emettitrici delle carte di credito hanno individuato delle associazioni inusuali per valutare il rischio finanziario di una persona. Secondo alcune ricerche, infatti, le persone che comprano i feltrini per i mobili rappresentano i clienti migliori per gli istituti di credito, perché più attenti e propensi a pagare i propri debiti nei tempi giusti.

Altro esempio, che rivela questa volta un effetto meno “indesiderato” dei Big Data, è il progetto condotto da Google nel 2008. Analizzando i gruppi dei termini di ricerca digitati dagli utenti sul proprio motore, il “Grande Fratello” era riuscito a prevedere l’avanzamento dei focolai di influenza nei territori degli USA più velocemente di come lo stesso ministero della Salute non fosse riuscito a fare utilizzando i record di ammissione ospedaliera delle strutture sanitare pubbliche e private.

Tutto questo sembra fantascienza, ma è solo una piccola parte di ciò che è possibile fare con i Big Data. Anche nella sfera pubblica, dove Il loro impiego è ormai consolidato. Si pensi alle applicazioni utilizzate dalle forze di polizia per stabilire dove e quanti reati hanno una maggiore probabilità di verificarsi; allo studio per comparare la qualità dell’aria con gli effetti sulla salute; alla creazione di modelli per analizzare i dati provenienti dagli essere viventi nelle scienze biologiche… e a tanto altro ancora.

Ma non tutto è così semplice. Rappresentando i Big Data una risorsa importantissima per l’intera umanità, non tutti possono accedervi con facilità. L’ostacolo preminente da superare è la diffidenza delle aziende, dei centri di ricerca e di taluni scienziati a condividere i dati da processare. E’ nel campo della medicina che questa mancanza di condivisione produce le peggiori conseguenze: nonostante esistano i mezzi forniti dai Big Data, ogni giorno continuano a morire milioni di persone.

Questa constatazione induce a considerare che, come sempre accade, l’essere umano, pur capace di compiere progressi giganteschi in ogni campo, non riesce a superare il limite più evidente: se stesso.

 

L’allarme di Soro: “Democrazie più deboli con i big data”

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“Nell’era tecnologica i Big Data disegnano la nuova geografia dei poteri, con un rischio concreto per le nostre democrazie, dal momento che gli Over the top hanno acquisito un predominio che concorre con il diritto che regola le relazioni tra gli Stati”. La denuncia parte da Antonello Soro, presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, al convegno “Big Data e privacy”, svoltosi in gennaio alla Camera in occasione della Giornata europea per la protezione dei dati personali. Un messaggio forte, quello di Soro, che non nasconde il pericolo derivante dal fatto che “poche aziende possiedono oggi un patrimonio di conoscenza gigantesco e dispongono di tutti i mezzi per condizionare un numero sempre più grande di persone”.

I colossi tecnologici detengono oggi un potere “che si affianca, sin quasi a sopraffarlo, alla tradizionale autorità statuale e che diversamente da questa è meno visibile e prescinde dalla legittimazione e dal circuito della responsabilità”. Secondo Soro, è “necessaria una nuova consapevolezza da parte delle opinioni pubbliche: dobbiamo chiederci quante delle nostre decisioni siano fortemente condizionate dai risultati che un qualche algoritmo ha selezionato per noi e ci ha messo davanti agli occhi”. I big data, ha sottolineato il presidente dell’Authority, sono “diventati un fattore strategico nella competizione dei mercati, nelle innovazioni di importanti settori pubblici, nella normalità della nostra vita quotidiana. Dobbiamo perciò riflettere sugli attuali scenari e interrogarci sugli effetti prodotti da queste trasformazioni per comprendere le conseguenze sulle nostre vite indotte dalle decisioni automatizzate”.

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