Province addio, dal primo gennaio 2015 è scattata la città metropolitana. Un’entità al momento avvolta nella nebbia che prende forma solo sulla carta. Venezia, Padova e Treviso si chiudono in un’unica grande area omogenea, sotto il profilo economico, che va da Cavarzere a San Michele al Tagliamento, da Fossò a Cinto Caomaggiore.
Ben 2.467 chilometri quadrati di superficie, 44 comuni e quasi 850mila abitanti per la nuova realtà urbana, nata – insieme ad altre 9 città metropolitane in Italia – dalla legge n° 56 del 7 aprile 2014. Un ente che si occuperà di ciò di cui prima si occupavano le Province, ma con competenze più ampie: un piano strategico unico, una pianificazione del territorio sul fronte della comunicazione e delle infrastrutture, sistemi coordinati di trasporto pubblico e servizi pubblici, politiche di sviluppo economico e sociale coordinate, mobilità e viabilità razionali e coerenti. Un sogno.
Stop alla frammentazione, via libera alla sinergia. Tutto chiaro. Ma chi se n’è accorto? In realtà, nella vita concreta, di questa città metropolitana per ora non si trova traccia. A guidarla, in questa fase di transizione, in attesa della stesura di uno statuto ad hoc, dovrebbe essere il sindaco del comune capoluogo. A Nord Est, dunque, il sindaco di Venezia. Peccato, però, che in laguna un sindaco non ci sia. Peccato che l’amministrazione sia commissariata dalla scorsa estate, dopo lo scandalo Mose. Peccato che sia servito un altro commissario straordinario, Cesare Castelli, arrivato in fretta da Roma, per reggere ciò che resta della Provincia fino alle elezioni di primavera.
Un caos amministrativo di cui fanno le spese, prima ancora dei cittadini, i 158 dipendenti del vecchio ente lagunare, tagliati di circa un terzo, in base alla riforma. Persone che non sanno nulla di ciò che sarà di loro e di cui nessuno si sta occupando.
Non consola pensare che il caos è generalizzato: da Firenze a Napoli, da Torino a Reggio Calabria arrancano anche le città i cui organi istituzionali sono a pieni poteri. Tanta la confusione, scarsa la conoscenza, dibattiti solo per addetti ai lavori, zero coinvolgimento dei cittadini, rischi secessionisti. Una riforma all’italiana.