I confini a volte sono labili. Sono geografici, linguistici, di cultura. Ma in presenza di una storia complessa come quella che riguarda i territori che per secoli furono soggetti all’Impero Asburgico (poi doppia monarchia d’Austria-Ungheria), i confini scompaiono e le comunità si amalgamano creando una coesistenza garantita da pari diritti e pari doveri. Almeno finché la coscienza nazionale non emerge. Ed è lì, in quel preciso momento storico, che nasce la tragedia del confine orientale, l’odio etnico ed a volte anche religioso, il conflitto strisciante, la separazione.
La tragedia delle foibe che oggi viene ricordata tramite apposita legge varata nel 2004, dopo decenni di oblio politicamente corretto ma anche di rancore puntualmente coltivato, è appunto una tragedia tutta umana. Nelle foibe sono finiti esseri umani e poco dovrebbe importare che fossero italiani piuttosto che serbi o sloveni o croati, fascisti o antifascisti, militari o civili. Non si sarebbe dovuti arrivare a ciò. Ma come insegna la Storia, a volte il genere umano perde il senno e per questioni assurde si massacra a vicenda.
Si parlava d’odio. Ebbene, l’odio nacque proprio negli ultimi periodi del dominio austriaco ed ungherese quando l’imperialregio governo di Vienna decise di pungolare il sonnacchioso nazionalismo croato in risposta all’irredentismo italo-giuliano. Quasi una strategia della tensione e degli opposti estremismi ante litteram, destabilizzare per stabilizzare. Gli esiti li conosciamo bene: non solo la balzana teoria politica austriaca non funzionò ma produsse una frattura insanabile i cui frutti avvelenati si sarebbero raccolti nei decenni a venire. Già dopo la Grande Guerra la frizione tra le opposte sfere era forte – evidenti gli episodi di Fiume, della questione di Zara, delle rivendicazioni italiane, degli incidenti in Dalmazia, dell’incendio del Narodni Dom a Trieste – ma lo scontro divenne frontale con l’italianizzazione forzata praticata dal regime mussoliniano.
Il casus belli che fece deflagrare la situazione nella zona fu appunto la politica fascista che si proponeva, come in Alto Adige, di sradicare completamente lingua, costumi e cultura di sloveni e croati per imporre un modello nazionalista italiano. Le tensioni si esacerbarono e quando il conflitto divenne reale, con l’occupazione della Jugoslavia nella primavera del 1941, iniziarono anche le deportazioni verso i campi di concentramento dove gli internati morivano di fame, malattie o per impiccagione: uno di questi era a Monigo, nell’area dell’attuale caserma Cadorin. E per la prima volta le foibe raccolsero resti umani: erano partigiani, civili, qualche ex militare del defunto regno dei Karadjordjevic. Ed anche gli ustascia croati, fiancheggiatori degli occupanti nazifascisti, ricorsero alle cavità carsiche per trucidare serbi ed ebrei, almeno prima della nascita del campo di Jasenovac che fu la Auschwitz del Poglavnik.
Non deve stupire dunque se all’alba del 9 settembre 1943, dopo l’annuncio dell’armistizio di Cassibile, si verificò una fase di vendetta contro l’italiano in generale ed il fascista in particolare. Un periodo breve ma ugualmente cruento di pura ritorsione che precedette la nuova occupazione di stampo germanico e la successiva guerra balcanica tra fazioni sempre più confuse: titini contro cetnici ed ustascia, ex militari italiani sbandati deportati oppure trasformatisi in improvvisati partigiani, il tutto sotto l’occhio vigile delle armate del Reich che stazionavano in zona ed intervenivano per devastare e rastrellare.
Le foibe tornarono a rivestire un ruolo di primo piano a partire dal 1945 quando l’occupazione titina di Venezia Giulia ed Istria divenne realtà. Non si trattò più di una vera e propria vendetta per quanto accaduto in passato quanto piuttosto di una strategia del terrore con il chiaro obiettivo di sgombrare il terreno da oppositori reali o potenziali, su base tanto etnica quanto ideologica. Gli infoibamenti, tecnica su cui l’analisi storica si è divisa riguardo ai numeri delle vittime, contribuirono ad alimentare il clima di paura che comunque non fece vacillare le comunità italiane d’Istria più numerose che continuarono a restare nelle proprie città, almeno finché le condizioni del trattato di pace non trapelarono. Da quel momento in poi cominciarono gli esodi, a volte pungolati dal nuovo regime jugoslavo con una nuova stagione di repressione o con episodi ancora discussi come la strage di Vergarolla. La cosiddetta “Linea Morgan” che marcava la distinzione delle zone d’amministrazione lasciava poche speranze. Le migrazioni verso l’Italia terminarono nel 1954 quando lo status quo della separazione tra Zona A (Trieste e Carso) e Zona B (penisola istriana) fu trasformato in confine di fatto restituendo una lingua di terra alla Repubblica Italiana e consegnando definitivamente un ampio territorio alla Jugoslavia.
La ferita rimase comunque aperta, a dispetto dei trattati. Gli esuli approdati in Italia (tra loro vi erano anche sloveni e croati oppositori del regime titino) venivano percepiti in maniera distaccata da parte della popolazione. La Repubblica cercò talvolta di insabbiare la questione con indennizzi economici, senza mai affrontare il problema direttamente: era troppo importante mantenere un canale aperto con un partner commerciale di primo interesse come il Maresciallo Brosz che nel frattempo aveva anche incrinato il fronte sovietico rompendo ufficialmente con Mosca e diventando un leader del neonato movimento terzomondista. La ragion di Stato prevalse sugli interessi di una comunità nascondendo una vergognosa pagina di storia sacrificata sull’altare dell’interesse geopolitico.
L’esacerbazione del clima di costante odio sui due fronti ha fatto il resto, decennio dopo decennio. Una riconciliazione vera e propria è stata abbozzata solo di recente, anche se le parti in causa ancora faticano ad ammettere tutte le colpe e tutte le responsabilità di una tragedia condivisa. Ancora oggi il negazionismo è imperante in alcuni ambiti, nonostante il monito del presidente Mattarella: “Il problema è l’indifferenza – ha ricordato il Capo dello Stato – Le foibe furono una sciagura nazionale cui non fu dato il dovuto rilievo all’epoca. Oggi il vero avversario da battere, insieme al negazionismo, è il disinteresse che si nutre della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi. Non dimentichiamo che a fianco di solidarietà vi fu anche indifferenza, incomprensione, persino ostilità”. Occorre dunque approfondire un capitolo troppo a lungo sottaciuto o sottovalutato della tragica storia del Novecento per comprendere e soprattutto mai più ripetere gli errori di allora.