E’ un argomento al quale non possiamo sfuggire, quello sulle banche. Non solo perché due degli otto istituti in dissesto appartengono al territorio di questa regione, ma soprattutto perché, nell’attuale scenario, le loro vite si intrecciano con le nostre esistenze di cittadini. Delle vicende di Popolare di Vicenza e di Banca Veneto ne riferiamo nelle pagine che seguono; qui, invece, vogliamo soffermarci su alcuni aspetti più “sistemici” della questione, con l’intento di[s2If !current_user_can(access_s2member_level1)] …READ MORE[/s2If][s2If current_user_can(access_s2member_level1)]

provocare nel lettore una riflessione più “matura” piuttosto che una più facile indignazione (peraltro sacrosanta).

Tralasciamo perciò i fatti di cronaca, già ampiamente riportati dai media nazionali, e proviamo a non farci traviare il cerebro dal dibattito seriale sui debitori eccellenti e sulle responsabilità politiche e manageriali che nessuno mai perseguirà. Le liste di proscrizione date in pasto all’opinione pubblica in queste ore infiammano – giustamente – gli animi dei correntisti delle varie banche e degli italiani tutti, coinvolti in una gigantesca opera di salvataggio pubblico che temiamo abbia più le proprietà di un placebo che di un rimedio strutturale, nonostante il rassicurante mainstream sugli interventi di consolidamento dell’intero settore bancario.

La crisi che ha investito le otto banche, in primis l’istituto più antico al mondo, il Monte dei Paschi di Siena, rivela infatti non tanto la fragilità del sistema creditizio nazionale (evidentemente inadeguato al nuovo contesto mondialista e globalizzato) quanto la pericolosità di un modello. Qual è il vulnus? In una parola: la finanziarizzazione dell’economia. Ciò che pone pressanti interrogativi sulla validità di un paradigma, destinato a essere sostituito rapidamente se si vogliono evitare conflitti sociali devastanti nelle e tra le varie comunità, intese, queste, sia come insieme di individui sia come entità statuali.

Ci rendiamo conto che un simile scenario spalanca un orizzonte speculativo (nel senso filosofico) infinito; tuttavia, sia pure nei limiti imposti da queste pagine, proveremo ad accennare a un paio di paradossi.

Il primo consiste nell’affermazione di un principio che somiglia sempre più a un ologramma ideologico, benché sancito costituzionalmente: la tutela del risparmio. Per rilevare la consistenza effettiva di tale nobile declamazione, basta chiedere alle centinaia di migliaia di risparmiatori su come si sono dissolte le loro provviste accumulate in una vita di lavoro e sacrifici. Si dirà: il piano del governo di venti miliardi mira proprio a evitare che si ripetano simili eventi. Giusto su questo punto sorgono le maggiori perplessità.

Che senso ha tutelare qualcosa che è in via di estinzione? E’ vero che l’entità del risparmio privato italiano permette ancora di tirare a campare, ma fino a quando? Il concetto di risparmio è saldamente legato a quello di economia reale, ovvero a una dimensione produttiva che si realizza attraverso il lavoro e l’impiego di capitale industriale, dove l’uno è funzionale all’altro e insieme contribuiscono alla creazione di un benessere diffuso.

Quale risparmio è oggi possibile in costanza di una recessione ormai decennale e in un sistema dominato dal capitalismo finanziario, per sua natura speculativo (questa volta nel senso deteriore del termine), «mobile e capriccioso», per dirla con le parole del compianto Zygmunt Bauman, nel quale la massimizzazione del profitto sostituisce l’utilità?

L’idea di risparmio appartiene purtroppo a una visione novecentesca dell’economia in cui «il lavoro dipendeva dal capitale locale per la sua sopravvivenza, e il capitale dipendeva dalla forza lavoro locale per i suoi profitti». Questa caratteristica di “fissità” del capitale industriale – contrariamente alla volatilità del capitale finanziario – costituiva una sorta di assicurazione sulla vita dei due soggetti, imprenditore e lavoratore, proprietario e produttore del capitale, «costretti a elaborare una coesistenza capace di resistere ai conflitti di interessi e alle conseguenti animosità reciproche».

Con l’avvento del mercatismo post-industriale le dinamiche cambiano verso. Le crescenti disuguaglianze economiche e sociali sono la rappresentazione plastica di questa trasformazione. Alla vecchia dicotomia ricco/povero subentra così una nuova opposizione, quella di escluso/incluso (con riferimento ai processi produttivi, ma anche a quelli socio-politici), che ingloba la prima e ne allarga il significato di emarginazione.

Dunque non si tratta più, o non solo, di trovare soluzioni ai buchi delle banche (in Italia aggravati dai soliti meccanismi clientelari), quanto di invertire il modello, di riaccendere il motore ingrippato, restituendo alla collettività prospettive ed energia. Finché il sistema creditizio sarà al servizio del “capitalismo di relazione” e della politica autoreferenziale; finché le banche continueranno a essere leve finanziarie abdicando alla funzione di driver economici, non ci saranno soldi che bastano. Sarà come raccogliere l’acqua del mare con un secchiello.

Il costo economico degli scudi bancari, che graverà in particolare sulle nuove generazioni e su quelle future, è solo la punta dell’iceberg; sotto si scorge una minaccia ben più grave: la perdita del diritto di autodeterminazione, degli individui e delle nazioni. Il cittadino – «servo sereno» nel periodo pre-crisi, oggi servo punto – è l’unico responsabile (ecco l’altro paradosso) della disfatta. E’ lui – e non le élites – a dover rispondere dei guasti del sistema, disegnato dalle gerarchie finanziare mondialiste ma che egli stesso contribuisce a sostenere in una spirale corruttiva in cui la mercificazione del lavoro alimenta quella «commercializzazione della moralità», per citare ancora Bauman, che è la vera arma di distruzione di massa del nostro tempo.

Un meccanismo perverso che produce una nuova dimensione di sudditanza: orizzontale, interconnessa. E’, questa, la versione più “evoluta” dell’homo oeconomicus, soggetto-oggetto di un processo funzionale alla moderna dittatura finanziaria, senza volto perché ha il volto di tutti, che assicura la circolarità delle sole responsabilità ma non quella del denaro. Con la  sistematica sottrazione dei mezzi economici ad opera di un avversario immateriale; deprivato di rappresentanza perché progressivamente delegittimato sul piano politico, il cittadino si ritrova infine snervato di capacità reattiva. I suoi bisogni materiali e il riconoscimento della sua identità perdono di rilevanza. La conseguenza ultima è la perdita della libertà.
Osservata da questa visuale, la “questione bancaria” assume tutt’altro significato.

 

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