Nel corso di questo mese di agosto, la città di Rio de Janeiro si è trasformata nel palcoscenico cosmopolita ospitante la XXXI Olimpiade estiva.
Diciannove giorni di competizioni hanno segnato l’incontro di culture e tradizioni differenti, nonché la collaborazione di nazioni che, attraverso lo sport agonistico, hanno dimostrato di saper sospendere quei conflitti che stanno lacerando l’Umanità.
Che valore ha dunque oggi l’agonismo e quali traduzioni può avere all’interno del quadro dell’onnipresente crisi contemporanea?
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Il termine agonismo deriva dal greco agone che, nell’antica Grecia prima e nell’antica Roma in seguito, indicava un insieme di giochi e gare ginniche, ippiche e musicali, organizzate sia per ragioni funerarie sia in onore di una divinità. La lotta che nasceva tra i diversi atleti in gara diventava così lo scenario della manifestazione dell’impegno e dello spirito combattivo di ciascuno. L’agon era dunque un luogo di gara, ma non solo. Esso costituiva un momento d’incontro, d’interesse comune, di condivisione. Esattamente come quest’anno le Olimpiadi in Brasile abbiano rappresentato il luogo di incontro di nazioni differenti nella direzione di un obiettivo comune, quello nato dalla passione per lo sport.
Malgrado i giochi olimpici di Rio, come quelli passati, abbiamo cercato di dimostrare come la diversità possa rappresentare un valore di profondo arricchimento mondiale, è necessario riflettere su uno dei valori che l’agonismo porta in se stesso e che la società contemporanea sembra a tutti i costi aver messo sul piedistallo: il principio della competizione.
Etimologicamente, l’unione della particella latina cum (con) con il verbo petere (andare verso) indicherebbe il movimento avente, con l’altro, una direzione e un obiettivo da perseguire comune, da cui la traduzione di andare insieme, convergere in un medesimo luogo.
Rispetto alla sfumatura negativa che caratterizza comunemente tale termine, entrare in competizione non dovrebbe tradursi unicamente con l’idea del conflitto, quanto più con un movimento comune che si realizza con e attraverso l’alterità. Non si gareggia quindi contro qualcuno, ma con qualcuno.
Tuttavia, se da un lato riprendendo la celebre frase eraclìtea: “polemos – il divenire- è padre di tutte le cose, di tutte re”, producendo così dal conflitto dei contrari una profonda armonia, dall’altro lato, è sempre e solo il prodursi di un movimento competitivo a generare lo scontro, il conflitto, la prevaricazione e, di conseguenza, la sottomissione.
Lo spirito dominante delle società presenti è quello di una competitività malsana che, negando la differenza, favorisce valori come l’auto-realizzazione personale, l’autonomia individuale e la proclamazione della riuscita professionale, trasformando così il rapporto con l’altro in antagonismo, un antagonismo che divide e sterilizza.
L’antagonismo concorrenziale è diventato così il paradigma di un linguaggio che dal mondo del mercato ha penetrato ogni altra sfera relazionale, diventando generatore di rapporti liquidi, come li definisce bene Zygmunt Bauman.
Quest’antagonismo produttore di nemici, di vincitori e di vinti, di oppressori e oppressi, ha implicato l’eclissarsi di ogni prospettiva comune di dialogo, esaltando al contrario un agonismo del successo e della performance, trasformando l’esistenza di ciascuno in macchina dal ritmo managerialmente segnata.
A noi, dunque, il compito di riuscire a riscrivere il linguaggio di un agonismo sano e benefico che dallo sport riesca a riproiettarci all’interno di una visione comune.
Sara Roggi
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