Voglia di indipendenza e di autodeterminazione, la legge sul bilinguismo approvata dal consiglio regionale rilancia le aspirazioni secessioniste del “popolo veneto”. Ma è scontro sulla sua effettiva applicazione

Se non è una Venexit, poco ci manca. La bandiera autonomista veneta sventola con più forza ora che lo status di minoranza linguistica è passato al vaglio del consiglio regionale. Martedì 6 dicembre, infatti, l’assemblea di Palazzo Ferro Fini ha approvato, dopo non poche polemiche tra gli stessi schieramenti di maggioranza, il disegno di legge 116 che [s2If !current_user_can(access_s2member_level1)] …READ MORE[/s2If][s2If current_user_can(access_s2member_level1)] ridefinisce il “popolo veneto” come “minoranza nazionale”, al pari di sudtirolesi e trentini.

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Gli effetti di tale provvedimento sarebbero di portata “storica”, se effettivamente introdotti: insegnamento del veneto nelle scuole, uso del dialetto negli uffici pubblici, doppia toponomastica, perfino programmi televisivi specifici della Rai. Ma soprattutto il riscontro più concreto si avrebbe sul piano amministrativo e finanziario, con l’attribuzione degli stessi diritti e identiche risorse che lo Stato riconosce a Sudtirolo e Trentino.

Secondo il relatore della legge, Riccardo Barbisan, capogruppo della Lega, la normativa sul bilinguismo rappresenta il viatico verso la dichiarazione di “appartenenza etnica” alla quale seguirà, nella prossima primavera, un referendum per ottenere l’autonomia speciale regionale. Almeno così annunciano i suoi sostenitori: i consiglieri di Lega, Lista Zaia e gruppo Tosi.

La linea di confine tra Venezia e Roma appare quindi sempre più netta, come dimostrano anche il massiccio apporto dei No veneti all’esito referendario del 4 dicembre e la spallata rifilata alla riforma Madia sulla pubblica amministrazione, le cui motivazioni contrarie sono state infine accolte dalla Consulta.

Insomma, il Veneto vuole che lo Stato applichi in regione la Convenzione quadro di Strasburgo siglata l’1 febbraio 1995 dal Consiglio d’Europa per tutelare le minoranze storiche, come quella dei rom, e ratificata anche dall’Italia nel 1997.

Il disegno di legge – ispirato dall’ideologo dell’indipendentismo veneto Loris Palmerini, attuale presidente dell’Istituto della Lingua Veneta, e sostenuto dall’altro portabandiera del venetismo, Franco Rocchetta – era stato proposto da quattro Comuni: Grantorto, Segusino, Santa Lucia di Piave e Resana. Sul testo, emendato più volte, si sono registrati frequenti scontri tra gli stessi partiti di centro-destra che sostengono il governo regionale. Alla fine, i cinque consiglieri di Forza Italia e Fratelli d’Italia si sono astenuti, mentre hanno votato contro Pd, 5 Stelle, Lista Moretti e un consigliere tosiano. Complessivamente i voti a favore sono stati 27, 16 i contrari.

 

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Ma se la legge è teoricamente in vigore, tutt’altra storia è la sua applicazione, anche perché la mannaia della Corte Costituzionale potrebbe spegnere sul nascere i sogni indipendentisti veneti, come testimoniano le perplessità dello stesso Ufficio Legislativo del consiglio regionale. Secondo la maggioranza, compreso il presidente della Regione Luca Zaia, il bilinguismo e la dichiarazione di appartenenza etnica devono trovare immediata applicazione. Pd e opposizione chiedono invece che prima di “sostenere oneri pubblici assurdi” e promuovere “discriminazioni” si attenda l’eventuale via libera della Consulta.

In particolare i dem giudicano la legge “un’umiliazione per tutti i veneti, che non sono affatto una minoranza, ma un’operosa maggioranza italiana che ha dato il sangue per la patria” e non mancano di esprimere “sorpresa per l’imbarazzante silenzio-assenso delle rappresentanze della Destra storica in consiglio regionale”.

Jacopo Berti, capogruppo del M5S, ritiene la 116 “una presa in giro” e la butta sul sarcasmo: “un mio amico “terrone” del Salento, mi avverte al telefono che sta per dar vita al “Comitato per la tutela della minoranza pugliese in Veneto”, con l’obiettivo di ricevere lo status di minoranza linguistica e rivendicare l’applicazione della Convenzione di Strasburgo anche per i leccesi, baresi, foggiani, brindisini e tarantini residenti nella regione Veneto”.

Provocazione per provocazione, anche il consigliere dem Stefano Fracasso ha ironicamente richiesto “il riconoscimento della minoranza nella minoranza, dai vicentini ai bellunesi, passando per i cimbri”.

A parte le battute, una cosa è certa: che una “lingua veneta” unitaria non esiste. L’ Unesco riconosce come ceppi linguistici autoctoni solo il napoletano e il siciliano. Del resto, in Alto Adige il bilinguismo è italiano/tedesco; in Veneto quale dovrebbe essere, italiano/vicentino, italiano/rodigino o italiano/veneziano? E uno di Valdobbiadene come dovrebbe rapportarsi con la “lingua madre”, specialmente se si è appena scolato una bottiglia di prosecco?

Gianfranco Bonanno

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