Situazione complessa nel quadro dell’impresa italiana. La crisi ha ridisegnato i contorni ed i contenuti dell’economia nazionale. Se le piccole e medie imprese hanno saputo col tempo reinventarsi fino ad affermare la propria tipicità e la propria qualità persino in ambito europeo, le grandi aziende sono sostanzialmente scomparse dal panorama nel quadro di un progressivo impoverimento del tessuto socio-economico. La Confederazione Generale degli Artigiani di Mestre ha diramato uno studio sul settore lanciando un evidente allarme.
“Pur contando su un patrimonio imprenditoriale che non ha eguali nel resto d’Europa – segnala il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo – rispetto ai nostri principali competitori stranieri, ad esempio, scontiamo un forte deficit di competitività ascrivibile, in particolar modo, all’assenza delle grandi imprese. In Italia, infatti, da almeno 3 decenni queste realtà si sono pressoché estinte, non certo per l’eccessiva numerosità delle piccole aziende, ma a causa dell’incapacità di questi grandi player di reggere la sfida lanciata dalla globalizzazione dei mercati”.
Non abbiamo più grandi imprese. Sino alla prima metà degli anni ’80, segnala la CGIA, l’Italia era tra i leader mondiali nella chimica, nella plastica, nella gomma, nella siderurgia, nell’alluminio, nell’informatica e nella farmaceutica. Grazie al ruolo e al peso di molte grandi imprese pubbliche e private (Montedison, Eni, Montefibre, Pirelli, Italsider, Alumix, Olivetti, Angelini, etc.), lo sviluppo ruotava attorno a questi comparti. A distanza di quasi 40 anni, invece, abbiamo perso terreno e leadership in quasi tutti questi settori. E ciò è avvenuto non a causa di un destino cinico e baro, ma a seguito di una selezione naturale compiuta dal mercato.
Alla luce di queste specificità, la CGIA chiede con forza che si torni a guardare con maggiore attenzione al mondo delle imprese, in particolar modo alle piccole e alle micro, visto che la tassazione continua ad attestarsi su livelli insopportabili, il credito viene concesso con il contagocce, l’ammontare del debito commerciale della nostra Pubblica amministrazione (Pa) nei confronti dei propri fornitori è di 57 miliardi di euro e circa la metà di questo importo è riconducibile ai mancati pagamenti. Afferma il segretario della CGIA Renato Mason:
“La nostra Pa non solo paga con un ritardo ingiustificato che nel dicembre del 2017 ci è costato un deferimento alla Corte di Giustizia Europea, ma quando lo fa non è più tenuta a versare l’Iva al proprio fornitore. Dopo l’introduzione dello split payment, infatti, le imprese che lavorano per il settore pubblico oltre a sopportare tempi di pagamento lunghissimi, subiscono anche la mancata riscossione dell’imposta sul valore aggiunto che, pur rappresentando una partita di giro, consentiva alle imprese di avere maggiore liquidità per fronteggiare le spese correnti. Questa situazione, associandosi alla contrazione degli impieghi bancari nei confronti delle imprese in atto in questi ultimi anni, ha peggiorato la tenuta finanziaria di moltissime piccole aziende”.
Le performance delle nostre Pmi non hanno eguali. Tornando ai dati di questa elaborazione, le performance delle nostre Pmi (con meno di 250 addetti) sono molto positive; tale risultato lo riscontriamo anche quando analizziamo gli score delle micro imprese, ovvero delle realtà produttive con meno di 10 addetti. Sia per quanto riguarda il numero delle attività, il fatturato, il valore aggiunto e gli occupati, in tutti i casi il nostro dato medio è nettamente superiore a quello europeo. Nello specifico, i dati dimostrano che siamo al primo posto in Ue per numero di imprese (oltre 3.719.000) e pur constatando che anche negli altri paesi il peso delle Pmi è molto simile al nostro, il ruolo delle nostre micro aziende, invece, ci vede primeggiare, soprattutto quando ci confrontiamo con paesi nostri omologhi come, ad esempio, la Germania.
In termini di fatturato, invece, l’Italia è al 4° posto in UE con 2.855 miliardi di euro all’anno (2016). Solo la Germania (6.195 miliardi), il Regno Unito (3.976 miliardi ) e la Francia (3.696 miliardi) contano un risultato superiore al nostro. Tuttavia, quando analizziamo l’incidenza prodotta dalle nostre Pmi sul totale fatturato, tra i big non abbiamo rivali, nemmeno quando analizziamo lo score delle micro imprese. Sulla stessa lunghezza d’onda è risultato che emerge dalla lettura dei dati riferiti al valore aggiunto: anche in questo caso le nostre Pmi e le piccolissime aziende non hanno contendenti tra i principali Paesi UE.
A fronte di 14,5 milioni di occupati presenti in Italia (dato al netto dei lavoratori del pubblico impiego e di alcuni comparti economici rilevanti), 11,4 lavorano presso le Pmi, di cui 6,5 nelle micro imprese. In entrambi i casi, l’incidenza sul totale occupati sbaraglia qualsiasi altro grande paese d’Europa. Per quanto riguarda le microimprese, siamo addirittura al primo posto (44,9 per cento sul totale occupati) tra tutti i paesi UE presi in esame in questa elaborazione.
Le azioni per rilanciare l’economia del Paese. L’Ufficio studi della CGIA, infine, indica almeno 5 interventi che la politica dovrebbe attuare per rilanciare il ruolo e la funzione delle nostre Pmi e, conseguentemente, del Paese. Esse sono:
1)Forte riduzione delle tasse e semplificazione del sistema tributario
E’ necessario uno choc fiscale che riduca, in 3 anni, la pressione fiscale di almeno 5 punti percentuali. Come ? Eliminando l’Irap per le micro e piccole imprese, abolendo lo split payment, il reverse charge nell’edilizia e riducendo progressivamente gli acconti Irpef, Ires, Irap e Inps. Altresì, è importante ridimensionare il peso della burocrazia fiscale che sta penalizzando soprattutto le piccolissime attività.
2)Favorire l’accesso al credito
Dal 2011 ad oggi gli impieghi vivi alle imprese sono diminuiti del 26 per cento. E’ importante promuovere un intervento concertato con gli altri Stati e presso le istituzioni europee affinché la Bce eroghi speciali finanziamenti alle banche con vincolo di destinazione a favore delle micro e piccole imprese. Inoltre, è necessario attivare strumenti di finanziamento alternativi al credito bancario. Infine, va consentito a tutte le imprese di compensare i crediti verso la Pa (certi, liquidi ed esigibili) con tutti i debiti fiscali.
3)Tornare ad investire
Rispetto al 2007 (anno pre-crisi) in Italia gli investimenti sono crollati di quasi 20 punti percentuali. Per consentire anche alle piccole imprese di crescere e creare lavoro, è necessario che lo Stato centrale torni ad investire in infrastrutture materiali ed immateriali, aggirando i vincoli di bilancio imposti da Bruxelles. Come ? Applicando, dopo aver trovato un accordo con gli altri paesi dell’Ue, la regola di bilancio (“Golden rule”) secondo la quale gli investimenti pubblici possono essere scorporati dal computo del deficit ai fini del rispetto del patto di stabilità fra gli stati membri dell’Unione europea.
4)Incentivare gli interventi per il lavoro e la formazione
E’ indispensabile rilanciare l’istruzione e la formazione professionalizzante in un’ottica di filiera che metta a regime il sistema duale (alternanza scuola/lavoro e apprendistato), sostenendo economicamente gli istituti tecnici e professionali di “frontiera”. Inoltre, vanno resi stabili e non limitati nel tempo gli incentivi per favorire l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro anche come neo-imprenditori.
5)Investire nell’impresa 4.0 e nell’utilizzo del digitale
Fino ad ora gli effetti dell’iniziativa impresa 4.0. hanno interessato quasi esclusivamente le imprese di media e grande dimensione. Si deve pensare anche alle micro imprese e a quelle artigiane che intraprendono il percorso di trasformazione digitale con il medesimo interesse comunicativo, le stesse corsie preferenziali burocratiche e le medesime risorse speciali attribuite alle start-up e Pmi tecnologiche.