I pazienti affetti da Parkinson presentano nella saliva un livello di caffeina inferiore rispetto alle persone sane.

Questa scoperta potrebbe rivelarsi un metodo efficace e non invasivo per misurare e monitorare la progressione della malattia. A rilevarlo è uno studio italiano pubblicato sulla rivista Scientific Reports.

Parkinson: meno caffeina nella saliva

L’assunzione di caffeina riduce il rischio di sviluppare il Parkinson e potrebbe rivelarsi un metodo rapido e non invasivo anche per monitorare l’evoluzione della malattia.

Entrando nel dettaglio, la ricerca ha coinvolto 86 pazienti che si trovavano in diversi stadi della malattia mettendoli a confronto con altrettanti soggetti sani della medesima fascia d’età. Inoltre, per ogni paziente è stato valutato il livello di assorbimento della caffeina, il relativo metabolismo e la quantità presente nella saliva.

Il legame tra caffeina e malattia

I risultati hanno evidenziato come l’assorbimento della caffeina di fatto sia risultato simile nei pazienti e nei soggetti di controllo, mentre la quantità presente nella saliva è risultata inferiore nei pazienti affetti dalla malattia di Parkinson in fase moderata o avanzata rispetto ai soggetti di controllo.

Inoltre, dallo studio è emerso come la caffeina abbia svolto un ruolo attivo anche nella progressione della malattia. “Approfondire i meccanismi di questo legame potrebbe portare a nuove conoscenze sulla genesi e sul suo sviluppo“, hanno spiegato gli studiosi.

Uno strumento per misurare la malattia

“Non sappiamo ancora con chiarezza quali possano essere le cause della differente concentrazione di caffeina. Pertanto, saranno necessari ulteriori studi finalizzati a chiarire questo aspetto“, spiega il primo autore dello studio, Giorgio Leodori, dell’Ircss Neuromed di Pozzilli (IS).

“Ciò che emerge è che la misurazione della caffeina nella saliva può costituire un valido strumento per definire con maggiore precisione lo stadio a cui si trova la malattia e per seguire la sua progressione“, prosegue Leodori. E conclude: “È un potenziale biomarker, utile per i clinici che seguono i pazienti“.