Opera di De Chirico

Sull’argomento relativo all’emergenza coronavirus, alle antiche processioni che un tempo si svolgevano nelle chiese per allontanare quelle che un tempo chiamavano le pestilenze ( basti ricordare la peste di manzoniana memoria) è intervenuto anche, con un suo prezioso editoriale, che abbiamo apprezzato molto e rilanciato sui nostri siti, l’affermato scrittore trevigiano, Gian Domenico Mazzocato

BASTANO LE PROCESSIONI?
di Gian Domenico Mazzocato
Sempre da lì partiamo, dalla peste di cui parla Manzoni ne I promessi sposi e nella Storia della
colonna infame. Fonti sono anche gli scritti di Alessandro Tadino (1580-1661) Giuseppe
Ripamonti (1573-1643), entrambi medici, che danno due versioni diverse sul paziente zero, per quel
che serve individuarlo. Devastò l’Italia centrosettentrionale arrestandosi ai confini col Lazio. Iniziò
nel 1629, si esaurì quattro anni dopo nel 1633. Arrivò anche a Venezia. La portarono ambasciatori
in cerca di aiuto. Venivano da Mantova, dove la peste era particolarmente virulenta. Furono messi
in quarantena nell’isola di San Servolo. Inutilmente. Alcune maestranze dovettero entrare in
contatto con i mantovani e portarono fuori il contagio. Dilagò. Fino a quando, impotente, il
Serenissimo Governo organizzò una processione e il 22 ottobre 1630 il doge Nicolò Contarini fece
voto solenne di erigere un tempio se la città fosse sopravvissuta alla peste. Sarà, nell’area della
Dogana da Mar davanti a San Marco, la Madonna della Salute per la cui costruzione vinse il
concorso Baldassare Longhena. Alcune settimane dopo la processione la peste esaurì il suo slancio
e andò estinguendosi. Intanto erano morti 47mila persone nel solo territorio cittadino (oltre un
quarto della popolazione) e quasi 100.000 nel Dogado. Tra di loro lo stesso doge Contarini e il
patriarca Giovanni Tiepolo.
Ovviamente la relazione tra processione e fine della peste può essere oggetto di fede, ma non dato
scientifico o significativo.
Anzi. Rileggere Manzoni. Nell’infuriare milanese della peste si pensò di organizzare una
processione. La si preparò per tre giorni, vi parteciparono tutti, proprio tutti, e con sfarzo immenso.
Capitolo 32: “La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que’ crocicchi, o
piazzette, dove le strade principali sboccan ne’ borghi… Ed ecco che, il giorno seguente, mentre
appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione
dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal
eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella
processione medesima”.
Serve la letteratura in questi casi, oh se serve. Giovanni Boccaccio ci parla, nel Decameron, della
peste del 1348, arrivata, pare, dalla Cina. Lo scrittore di Certaldo analizza il dissolversi del tessuto
sociale davanti alla paura, il degrado morale. Lezione memorabile. “E lasciamo stare che l’uno
cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o
non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti
degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il
fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e
le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano”.
Non manca chi usa l’emergenza per truffare. In quegli anni ci fu, ricorda qualcosa? Qualcuno che
diede colpa agli ebrei e ne fece strage.
Ancora Boccaccio, sulla paura: “nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano
vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor
cose; e così faccendo, si credeva ciascuno medesimo salute acquistare”.
Ci aspetta questo? Altro che processioni. Il poeta Tito Lucrezio Caro (seconda parte del VI libro del
De rerum natura) ci racconta la peste che colpì Atene nel 430 a.C., la stessa di cui parla Tucidide.
“Non si dava più peso alla fede e alla divinità, il dolore del momento superava ogni altra cosa…
Tutto era turbato e ciascuno metteva alla meglio il suo congiunto sotto terra… E la miseria e il
frangente spinsero a molti atti orrendi…”. A morire non sono i corpi, sono le anime e i legami
interpersonali che abilitano l’uomo a definirsi tale. Potrebbe essere, quella peste del 430, la stessa
che apre tragicamente l’Edipo re di Sofocle. Parla Apollo, per bocca del cieco indovino Tiresia. La
peste è stata scatenata in Tebe da un oscuro omicidio, è immagine del male che si annida nell’uomo.
E l’interrogativo che domina è perché proprio qui, nella mia casa, a me? Prende corpo la
consapevolezza che la convinzione di poter controllare la propria vita e le proprie pulsioni è
soltanto un’illusione. C’è un male oscuro di cui la peste si fa immagine. Sono anche le parole di

Lennox, in Macbeth: “Tutta la notte ha urlato l’uccello delle tenebre. Dicono che la terra abbia
tremato, come febbricitante.”
“Ai primi di settembre del 1664 cominciò a correre voce a Londra, e anch’io ne intesi parlare nel
mio quartiere, che in Olanda c’era di nuovo la peste”, comincia così Diario dell’anno della peste
che Daniel Defoe pubblicò nel 1722. Si ripercorrono le tappe del contagio, le prime vittime, gli
stratagemmi per sfuggire da quelle che oggi chiameremo “zone rosse”. Poi la Londra sociale che si
sfalda e infine l’incendio devastante che pone fine al contagio. Nel 1912 Jack London pubblica il
più visionario dei suoi romanzi, La peste scarlatta. Il morbo uccide in poche ore scoppia nel 2013
(London ha sbagliato di sette anni…). Comanda il Consiglio dei Magnati dell’Industria e il contesto
pare proprio quello della moderna società capitalistica. Nel 2073, sessant’anni dopo, James Howard
Smith, un vecchio tra i pochi superstiti nell’area di San Francisco… Certo, La peste di Camus e
L’amore ai tempi del colera. Però passando per Quelli del colera che Verga pubblicò nel 1887.
Prezioso, una colonna infame alla siciliana. Incipit memorabile. “Il colèra mieteva la povera gente
colla falce, a Regalbuto, a Leonforte, a San Filippo, a Centuripe… il parroco di Canzirrò, ch’era
scappato ai primi casi, e veniva soltanto in paese per dir messa a sole alto, l’aveva pigliato nell’ostia
consacrata: a don Pepè, il mercante di bestiame, gliel’aveva dato invece in una presa di tabacco”.
Ed è dagli all’untore, un baraccone di zingari, una caccia all’uomo ancestralmente barbara.
Serve scienza, servono cure. Servono anche antidoti morali. E forti. Da credente e praticante, per
cui la domenica senza messa non è domenica: nulla di tutto questo può venire dalle processioni.