Cosa rimane, a cent’anni dalla sua nascita, di Rocky Marciano, pugile che negli anni Cinquanta segnò per sempre la storia della boxe? “Quello che vogliamo far sopravvivere. La sua postmodernità come storia di immigrazione, ad esempio, è assolutamente attuale. D’altra parte, i miti prendono vita quando sappiamo porgli le domande giuste”. 

A dirlo è Dario Ricci, giornalista di “Radio 24” e de “Il Sole 24 Ore”, che ieri sera, martedì 16 aprile 2024, al Pastificio, ha presentato il suo ultimo libro “Rocky Marciano: Sulle Tracce del Mito”, con la moderazione di Piergiorgio Paladin, founder e guida di Ideeuropee.

Un viaggio nella storia umana e sportiva del campione italo americano, unico peso massimo a entrare nella leggenda chiudendo la propria carriera senza sconfitte. Una vicenda che non è solo la storia di un pugile: come tutti i veri “miti”, Francesco Rocco Marchegiano riesce a svelare qualcosa del suo tempo. “Marciano non rinunciò mai alle sue origini, pur vivendo in un’America degli inizi Novecento dove essere italiani non era facile – ha raccontato Ricci – Gli chiesero di americanizzare il suo nome, ma lui si oppose perché le sue origini si dovevano cogliere. Ecco perché Marciano, la crasi che lo collocò nel mito”. 

Bastano i numeri per descrivere la grandezza del “bombardiere di Brockton”: 49 match vinti, di cui 43 per k.o. “Agli inizi era l’antitesi del pugile. Charley Goldman, il suo allenatore, la prima volta che lo vide in uno sparring ricordò che Rocky aveva il compasso delle gambe sbagliato, una guardia maldisposta, ma con un destro mise k.o. il suo avversario – ha ripercorso il giornalista – Goldman corresse gli errori, ma scelse di non toccare le peculiarità dell’atleta: Marciano era un peso massimo del tutto diverso rispetto alla sua categoria, non era alto ed aveva un’apertura di braccia più corta”. 

La storia di Marciano non è solamente un tributo alla determinazione e al sacrificio, un esempio per tutti quelli che vogliono inseguire i propri sogni, incassando i colpi, cadendo ma rialzandosi sempre. Per Ricci è molto di più: “Da piccolo seguivo il pugilato con mio nonno. Non ci capivo molto e quasi mi annoiavo. Quando mio nonno morì, non andai al funerale, ma in seguito cominciai a percepire un dialogo interrotto. Lo riattivai solamente nel 2015, quando mi iscrissi ad alcuni corsi di boxe. Non so cosa ci diciamo, ma so che con il pugilato ho trovato il linguaggio per continuare a parlare con lui”. 

Ricci si è prestato, infine, alle domande dal pubblico. “Con che spirito affronterò le prossime Olimpiadi? Confesso che negli ultimi tempi ho trovato difficile godermi la gioia dello sport, esultare allo stadio sapendo che nello stesso momento la gente nel mondo soffre. La pace non è un pensiero al quale possiamo dedicare pochi minuti a settimana. Dovremmo fermarci tutti, questo non è il mondo che vogliamo. Mi avvicino a Parigi con animo triste, ma questo è il momento della speranza: essere fiduciosi, quando tutto va bene, è troppo facile”.