Oggi ricorre il 77° anniversario del bombardamento della Città di Treviso.

E la città ha celebrato questo anniversario con i rintocchi della Torre Civica a ricordare le vittime, la sofferenza, la desolazione di quei momenti e con alcune celebrazioni in forma ristretta alla presenza anche del vescovo Michele Tomasi.

A ricordare quanto accaduto è stato il sindaco Mario Conte: “Immaginate, in un venerdì santo limpidissimo come quello del 1944, l’arrivo improvviso di 159 bombardieri e poi 7 interminabili minuti di distruzione. Oggi, alle 13.05,  un momento di raccoglimento unirà simbolicamente tutta la comunità trevigiana”.

Nel ricordo, il sindaco ha anche riportato il racconto del poeta Ernesto Calzavara che ripercorre quei tragici momenti:

Sono tornato da Treviso stanotte dopo un viaggio di circa ventiquattr’ore. […]
Per evitare le frequentissime interruzioni del la linea normale (Verona, Vicenza o Mestre), giovedì 6 ultimo scorso partii nel pomeriggio per Mantova dove pernottai in stazione e all’alba ripresi il treno per Padova, donde in autocorriera per Treviso. A Zero Branco, alle 13, ci sorprese l’allarme: duelli aerei, spari delle contraeree, boati e fischi lontani delle bombe che piovevano sulla città.
Erano nugoli di apparecchi (ne abbiamo contati circa duecento) che procedevano a gruppi serrati come in parata e piuttosto alti.
Giunti a Treviso ci fermammo alla porta Santi Quaranta perché le ostruzioni sulle strade prodotte dal bombardamento impedivano di andare avanti. Corsi da mia sorella Bice e appresi che tutti erano salvi e le nostre case pure. Distrutti invece la casa di proprietà di suo marito in via Orsoline e il palazzo Avogadro ove abitavano i suoi.
Ritornato in città attraverso rovine e rottami d’ogni sorta, valicando montagnole di detriti e di calcinacci, tra il fumo degli incendi e la gente ferita e terrorizzata andai in ospedale da mio fratello chirurgo. Quivi la gente entrava a fiotti su veicoli o a piedi.
Erano tutti pesti, laceri, sporchi, sanguinanti, zoppicanti. Chi gridava, chi piangeva, chi chiamava aiuto e i parenti perduti, chi se ne stava da parte intontito e stralunato.
Infermieri, medici e suore correvano a medicare e a soccorrere. Dappertutto barelle che giravano, feriti a terra, in cortile, sulle scale, nei corridoi, alcuni lievi, altri agonizzanti, altri che urlavano come dannati e sangue dovunque.
Uscito ancora e incamminatomi verso il centro: rovine su rovine; strade impraticabili, grovigli di fili, di travi, di tavole, di pietre, e morti tratti dalle macerie deposti alle cantonate in lunghe file per terra, nelle chiese, sotto i portici, borghesi, militari, donne, fanciulli: alcuni irriconoscibili, tutti imbrattati di polvere e di sangue, deturpati.
Alcuni rifugi furono centrati in pieno; tali quello di piazza Bersaglio, San Nicolò e via Fiumicelli: carnai … Le case tutte crepe, oppure sbrindellate, sbriciolate, rase al suolo sono da ogni parte.
In venticinque secoli di vita, questa città non credo abbia avuto una catastrofe collettiva di tale proporzione.
Ora tutti scappano via da quel luogo come se fosse diventato una valle della morte. Con ogni mezzo la gente porta via le sue masserizie verso la campagna. Nessuno vuol dormire in città: nei prati fuori le mura la gente bivacca. D’altro canto la vita è diventata difficile: la luce in molti rioni manca, il gasometro è saltato in aria, la centrale elettrica sul Sile lo stesso, il telefono non funziona, la ferrovia è rimasta coi binari contorti e divelti da Lancenigo fino verso Sant’ Angelo: l’edificio delle poste è crollato quasi per intero, tanti altri edifici pubblici e privati non esistono più.
Lasciando le muraglie, gli asfalti e i cementi milanesi, volevo attendere nei miei campi l’arrivo di questa tarda primavera.
Invece, questa volta, sentivo un peso dentro il cuore, un peso così enorme e angoscioso”.