Nel nostro articolo di ieri sulle criticità strutturali del Mose abbiamo analizzato la perizia tecnica del prof. Gian Mario Paolucci, che ha individuato nell’incongruenza tra progetto originale e costruzione finale la causa degli attuali, precoci problemi di corrosione. In buona sostanza, secondo il luminare metallurgico dell’Università di Padova, le imprese che hanno edificato l’opera avrebbero utilizzato un acciaio più semplice rispetto alla variante indicata nelle specifiche progettuali, ossia il superduplex, caratterizzato da altissimi valori di resistenza strutturale e alla corrosione.

Dopo l’accusa di Paolucci, riverberata nei giorni scorsi da Roberto Linetti (dirigente capo del Provveditorato alle Opere Pubbliche), arriva puntuale la replica di Piergiorgio Baita, fra i principali responsabili tecnici del Mose. “Si era deciso di utilizzare acciaio superiore per il perno e quello rivestito per il resto della cerniera. Il prototipo è stato testato alla FIP Industriale (società di Selvazzano Dentro leader nelle grandi strutture edilizie e industriali, ndr), che dispone di macchinari unici al mondo. Per la produzione di serie abbiamo dovuto cambiare fornitore, perché i prezzi erano troppo alti. Lo abbiamo preso a Cividale del Friuli. Non solo non è più scadente, ma forse addirittura migliore dell’altro.” Insomma, qualcosa sarebbe andato storto prima che la FIP mettesse mano al Mose, ossia già in sede di approvazione del progetto.

Baita ha così concluso spiegando che “La colpa non è dell’impresa. La Fip ha eseguito quello che avevano deciso Consorzio e progettisti”. Staremo a vedere: tra le criticità processuali e quelle -forse più gravi- di natura strutturale, il Mose è ormai sommerso da una valle di lacrime. Grande quanto quella da cui deve (dovrebbe?) salvare Venezia.